I cliché sono fastidiosi. Lo sono ancora di più quando diventano così normali da essere stereotipi, così ripetuti da sembrare abitudini. Uno dei cliché del nostro tempo (o forse di ogni tempo) è quello per cui, quando qualcosa non va, è colpa di qualcuno e, quindi, diventa necessario trovare un nemico. Alla fine è lo schema più normale di ogni buona favola: un protagonista, buono, magari un po’ ingenuo e sicuramente indifeso  (Cappuccetto Rosso, per dire) e un cattivo, magari machiavellico, diabolico e pericoloso (il Lupo). Ecco: dopo ogni evento tragico del nostro tempo recente, diciamo dalle Torri Gemelle tanto per capirci, la collettività ha avuto bisogno di un nemico contro cui unire le forze per reagire. Non solo: quel nemico occorreva (ed occorre) trovarlo subito e occorre allo stesso tempo che sia credibile e quanto più diverso da noi possibile. Certo, ridurre questo discorso agli ultimi 15 anni sarebbe riduttivo, visto che questo è uno schema che potrebbe tranquillamente estendersi a tempi per noi più remoti (prendete gli ebrei, colpevoli di quasi ogni sciagura capitata a gran parte dell’Occidente cristiano da quel giorno del 33 d.C.) con la conseguenza che si rischia di fare un po’ di confusione. Perciò è meglio “usare” esempi e tempi a noi più prossimi.

In ogni caso: sembra essere un dato di fatto che l’essere umano tenda ad affrontare le crisi e le difficoltà della propria esistenza cercando qualcuno a cui dare la colpa. Questo atteggiamento psicologico un po’ infantile ha creato disastri ogni volta in cui è diventato la regola di condotta adottata da una maggioranza di noi, comportando atteggiamenti aggressivi e di persecuzione verso intere “classi” di persone solo perché non rispondevano ad un determinato canone considerato distintivo tra buoni e cattivi. Ecco, dopo Berlino, così come dopo tutti gli attentati di matrice terroristica degli ultimi 15-20 anni, la storia tende a ripetersi: con la promessa del Governo Gentiloni di rafforzare le procedure per l’espulsione degli stranieri senza permesso di soggiorno e con la circolare emessa dal Capo della Polizia Gabrielli in cui si delineano nuove linee guida più restrittive per il fermo e l’avvio delle procedure di rimpatrio (circolare introvabile sui siti istituzionali), questo cliché, questa spasmodica ricerca di un cattivo (o di un capro espiatorio della nostra inadeguatezza) sta prendendo di mira gli immigrati.

Ora: è vero che gli irregolari non hanno il “diritto” di stare qui, almeno non in senso proprio. Tuttavia credo che sia legittimo domandarsi se non sia la nostra legge ad essere sbagliata: torniamo alla storia e prendiamo ad esempio una pagina oscura come la segregazione razziale. Negli Stati Uniti, questa condizione è stata la legge, il “diritto”, fintanto che non è stata abbattuta dai fatti prima che dalla penna di un legislatore. Oggi, questa condizione, è universalmente ritenuta sbagliata: eppure essa stessa è stata il “diritto” fino a poco più di 50 anni fa. Dunque, è sufficiente che un fatto, un comportamento o una situazione faccia parte del “diritto” per essere accettabile? E ancora: è accettabile che centinaia di migliaia di persone che fuggono dalle loro case per sfuggire alla fame, alla miseria, alla guerra od alla persecuzione debbano necessariamente farlo rischiando la vita, prima, e vivendo in condizioni magari migliori ma non meno disumane una volta giunte qui?

A questa ricerca di un nemico si accompagna una delle spinte più forti dentro la nostra società: quella “securitaria“. In Italia, nel 2006, vennero varati i pacchetti sicurezza dall’allora governo di centro-destra, la famosa Riforma Maroni (all’epoca era Ministro dell’Interno) che ha introdotto, tra altre oscenità, il reato di immigrazione clandestina imponendo misure particolarmente severe in questa materia. Reato che, peraltro, esiste ancora oggi sebbene sia considerato inutile da tutti: succede.

In Europa, questa spinta ha vissuto fasi alterne: i muri che si sono levati nell’Est hanno contagiato anche altre nazioni come l’Austria, anche se per ora si è limitata a minacciarlo, e il Regno Unito, che al confine di Calais un muro lo ha costruito. Ma si manifesta anche in altri modi, come con lo sgombero della giungla di Calais ad opera del governo francese oppure con le situazioni che si sono venute a creare a Ventimiglia (articolo un po’ vecchiotto ma spiega la situazione che si è venuta a creare da un anno a questa parte), Roma o lungo la c.d. rotta balcanica. Questa ricerca spasmodica di sicurezza che si realizza abbattendosi su persone inermi, ha raggiunto vette di inciviltà inaudita con la predisposizione di CIE e CARA in giro per l’Italia: oggi queste sigle sono tornate sulla bocca di tutti, sia per la promessa di Gentiloni di aprire “un CIE per ogni Regione” (che poi sono proprio le regioni ad osteggiare questo tipo di politica, quindi vedremo se e come ci riuscirà il Governo), sia per i fatti di cronaca che stanno portando l’attenzione sulle condizioni e sulla gestione del CIE di Cona, provincia di Venezia, e degli altri sparsi per l’Italia.

Se trovare soluzioni a questi temi è difficile, ancora di più stando seduti dietro ad una tastiera (il commento è libero e, nel limite del possibile, si cerca di non dire inesattezze o “post-verità”, come si chiamano oggi), si può però provare ad osservare che, numeri alla mano, due cose sono evidenti: innanzitutto, il sistema di accoglienza non funziona e i problemi ad esso legati (dalla scarsa adesione dei comuni al progetto SPRAR, a quelli legati al regolamento di Dublino) non aiutano certamente a trovare il bandolo a questa matassa. Certo, se i Comuni smettessero di guardare al proprio orticello e ci fosse una più efficace gestione del territorio e delle risorse, in cui il contributo di tutti sia la regola e non una qualche follia utopistica, magari si eviterebbe il sovraffollamento delle strutture esistenti ed una gestione in generale più fruttuosa. Ma è solo un’idea.

Per dire, la Provincia di Trento (a cui è attribuita una quota in via autonoma per il suo status di Provincia autonoma) ospita 1425 immigrati (circa l’1% del totale) a fronte di una popolazione di circa 500 mila abitanti. La Liguria, con una popolazione di oltre 1 milione e mezzo di abitanti, ne ospita 5662 (dati del Ministero degli Interni, aggiornati al 31 dicembre). Più o meno, quattro volte tanti. Se, da un lato, è vero che la Liguria riesce, in linea teorica, a “sopportare meglio il costo” in virtù della logica con cui le quote vengono distribuite (cioè la popolazione residente: che poi in Liguria vive il triplo delle persone che vivono in Trentino, non il quadruplo), è vero anche che il Trentino è più ricco. E non è solo una diceria: i dati sul PIL pro capite mostrano che, in Trentino, è di 34196 euro, mentre in Liguria di 27301 (dati del 2014).

Lo so: sono valori assoluti, tutto sommato poco indicativi, e la realtà è molto più complessa dei semplici numeri. Tuttavia, il dato incontrastabile è che, in questo rapporto, da una parte ci siamo noi che, volenti o nolenti, siamo la parte forte mentre dall’altra ci sono loro, e chiedono il nostro aiuto. Lo chiedono a noi, che siamo impauriti. A noi, che ci sentiamo indifesi contro un nemico che non sappiamo nemmeno bene come identificare. Aprire più CIE, dare un giro di vite all’immigrazione clandestina non farà certo migliorare la situazione ma creerà sempre più astio, sempre più aggressività gli uni verso gli altri. Forse hanno ragione quelli che dicono che non possiamo più gestire la situazione, quelli del “aiutiamoli a casa loro”: tuttavia, in questa favola, la scelta più giusta sembra essere quella di camminare affianco al Lupo che, per una volta, è vittima dell’egoismo di Cappuccetto Rosso.